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FIGLIA MIA, FIGLIO MIO VOGLIO ‘SOLO’ CHE TU SIA FELICE!

Analisi di una aspettativa genitoriale post-moderna

E’ proprio così, oggi : “vogliamo ‘solo’  che i nostri figli e le nostre figlie siano felici”. Infatti, che altro potremmo desiderare?

Se penso a  mio figlio e scorro il suo futuro mi rendo conto, data la quantità di variabili, che fuggo in avanti e mi ancoro all’unica immagine certa: faccia ciò che vuole purché lo renda felice. Nel mio lavoro  riscontro la stessa cosa parlando con molti genitori. Ciò che desiderano veramente non sono i voti alti o i successi sportivi e artistici, poiché tutto ciò assume un senso solo se ha un corrispettivo nella felicità crescente dei figli. Paradigmatica una coppia di genitori nel dirmi: “nostra figlia è bravissima a scuola, balla molto bene ed è bellissima tuttavia è sempre scontrosa e insoddisfatta e ci creda, faremmo qualsiasi cosa per vederla contenta. Noi vogliamo ‘solo’ che sia felice” Ci credo eccome! L’aspettativa ci fa onore ma vale forse la pena comprenderla più a fondo perché se la felicità, come diceva Seneca, “ è affare impervio”  l’asticella potrebbe essere molto più alta di quanto ci appare.

“Cos’è la felicità?” “Cosa esclude quel ‘solo’?” “E noi genitori … siamo felici?”

 FELICITA’

Per Platone felice era chi metteva la propria virtù al servizio del “bene comune”, per S. Agostino una tensione spirituale verso Dio, per Schopenhauer la vera felicità è addirittura irraggiungibile e per  Kierkegaard «la felicità è una porta che si apre dall’interno:per aprirla, bisogna umilmente fare un passo indietro». Il tentativo di definire cosa sia la felicità ha attraversato le epoche tuttavia non siamo ancora arrivati ad una definizione condivisa e definitiva. Ciò che è certo, tornando a Seneca, è che essendo la felicità una vetta da conquistare praticando virtù ed eliminando i desideri, è affare assai impervio!

Eppure noi, oggi,  vogliamo ‘solo’ che i nostri figli siano felici. Nientemeno!

E’ quel ‘solo’ che dovrebbe insospettirci. Cosa esclude ed evita implicitamente l’uso di questo avverbio?

SOLO

Sembra che le generazioni di genitori del passato avessero come “progetto pedagogico” più che la felicità dei figli la loro integrazione nella comunità di appartenenza ( forse le due cose coincidevano). Le figlie venivano educate per diventare buone mogli e madri,  i figli per portare avanti il lavoro dei padri o essere valorosi guerrieri. In entrambi i casi devoti fedeli alle liturgie religiose proprie dell’epoca. Ruoli sociali definiti di cui i genitori stessi fungevano da modello. Il sistema di valori condiviso (onore,fede, famiglia, patria…) si declinava nelle epoche e nelle culture in precise “linee guida educative”.

Ed oggi? Oggi non vogliamo più che diventino questo o quello forzando le loro naturali inclinazioni, oggi vogliamo ‘solo’ che siano felici, in altri termini che realizzino sè stessi. Scomparse le linee guida collettive la fatica che mamma e papà fanno nel pensare progetti pedagogici individualizzati viene ripagata dall’immaginare figli  liberi di  “diventare ciò che sono”. Quel “solo”, che sorge spontaneo e lievemente rivendicativo sulle generazioni passate, pare quindi escludere  ogni sorta  di prescrizione  rispetto a  ciò che i nostri figli dovrebbero diventare. Con tutte le possibilità che stiamo dando loro come possono non  trovare ciò che gli appassiona e rende felici?

Ma è veramente così? A ben vedere il “villaggio globale” non ha mai smesso di esercitare la sua pressione pedagogica. Non è vero che nella nostra società  non ci sono più i valori da cui derivavano i diktat educativi, è che uno solo ha assorbito tutti gli altri diventando l’highlander dei valori, il valore supremo: il denaro ( di cui il successo è il corollario).Questo valore-unico occupa, talvolta, anche il posto vuoto lasciato da Dio diventando idolo.

Il valore-unico detta ai genitori un’agenda educativa precisa: formazione eccellente sempre più anticipata, competizione fin dalla culla e tanta tecnica. Siamo in un paradosso epocale. Vogliamo che i nostri figli diventino ciò che sono a patto che ciò che sono li faccia guadagnare ed emergere. Le nuove generazioni potrebbero sintetizzare l’ambivalenza dei due messaggi nel seguente sillogismo:

“Volete solo la nostra felicità

ci formate  per fare soldi,

i soldi danno la felicità”

E’ il crash etico post-moderno. E avrebbero ragione nel credere che i soldi danno la felicità? No! Non danno la felicità – che non sappiamo ancora cosa sia – ma danno tantissimo piacere. Allora, per ovviare a questa contraddizione la mia ipotesi è che abbiamo trovato un escamotage semantico confondendo  PIACERE con FELICITA’. Il piacere è una bella sensazione che nasce e muore nell’istante  la felicità  invece è quell’affare impervio ancora tutto da definire. Prova nè è la nostra frustrazione quando, cercando di accontentarli continuamente  per vederli felici riempiendoli di oggetti e gratificazioni, li scopriamo ogni giorno più insoddisfatti ed arrabbiati. Tutto quello che hanno e facciamo per loro sembra non bastare mai. Ed è proprio così: non basta!

Un pò come quando si è dentro un grande supermercato, ci percepiamo liberi di scegliere tra la moltitudine di prodotti esposti provando piacere nell’acquisto tanto da dimenticare la cornice che ci contiene, un monopolio economico che ha distrutto la diversità del piccolo commercio.

 

VOGLIAMO

Se volessimo essere davvero genitori sovversivi sulla pelle dei nostri figli dovremmo insegnare loro a diventare ciò che sono realmente ma il punto è:  sappiamo come si fa? A Delphi, sul tempio di Apollo era scritto  “conosci te stesso” (γνῶθι σαυτόν).  In questo modo l’oracolo rivolgeva all’uomo l’invito di indagare dentro di sé per scoprire che l’essenza della vita è dentro e non fuori di noi.

Noi, dunque, siamo in grado di dare loro il modello?  Siamo felici?

Perché se i genitori del passato educando i figli secondo modelli sociali prestabiliti e condivisi davano loro il modello di ciò che sarebbero dovuti diventare oggi, per non risultare incoerenti, dovremmo essere felici o almeno ricchi e famosi.

Una mia cliente una volta mi ha detto: “i miei genitori continuano a dirmi questo e quello perché  vogliono solo che sia felice, ma loro non lo sono mai.”

 

CONCLUSIONE

Serve  dirci la verità.

Verità è che esattamente come tutti i genitori del mondo prima che siano felici abbiamo bisogno di sapere che i nostri figli sopravviveranno e si adatteranno a questa giungla di mondo nel quale li abbiamo “gettati” e per questo siamo disposti  a forzarli nelle loro inclinazioni.

E loro, come tutti i figli del mondo, sono arrabbiati poiché forzati a diventare ciò che non sono.

Verità è che non ‘solo’ ma ‘anche’ vogliamo davvero che siano felici ma non sappiamo come si fa perché noi stessi stiamo ancora cercando.  Allora spesso ci accontentiamo che provino piacere riempiendoli  di cose, esperienze e  gratificazioni. Il piacere in sé è bellissimo,  il problema è la confusione e il contrabbando semantico tra i due significati.  Se senza accorgercene piano piano sostituiamo in noi e in loro la “felicità” con il “piacere”, smettiamo di cercarla, abbassiamo lo sguardo e rischiamo collettivamente di rinunciarvi.

Verità è che quando diciamo ai nostri figli che vogliamo che siano felici stiamo dicendo  loro una cosa enorme, la più difficile ed importante di tutte,  perché la felicità è la grande utopia del genere umano, il domani, il futuro che ci suggerisce cosa costruire oggi. E’ nell’essenza una domanda aperta da porci insieme. Un tentativo irrinunciabile di cui noi genitori, per primi, dobbiamo ‘solo’ farci carico.

Rita Greta Rombolotti

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